A metà gennaio si discuteva di quando la Federal Reserve statunitense avrebbe iniziato a tagliare i tassi d’interesse, di quando avremmo assistito al famoso “pivot della Fed”? A giudicare dai mercati dei futures di allora, ci si aspettava un’inversione di tendenza per fine estate o inizio autunno, con il tasso sui fondi federali che avrebbe raggiunto il 3,75% entro la fine dell’anno, scendendo da un picco previsto del 5%.
È tornata!
La tesi formulata allora presupponeva un netto rallentamento dell’inflazione. Le aspettative inflazionistiche a un anno erano scese di quasi 100 pb dai livelli di dicembre 2022 ad appena il 2%, molto meno del 3% previsto dalla Fed (o meglio del 3,5% se rettifichiamo le stime della Fed sulla spesa per consumi personali per equipararle alle stime del mercato sull’indice dei prezzi al consumo (IPC)).
Se l’inflazione si fosse attestata a 150 pb in meno rispetto a quanto inizialmente previsto, la Fed non avrebbe più avuto motivo di mantenere i tassi così alti e avrebbe potuto iniziare a tagliarli. Questa visione ottimistica dell’inflazione si basava sui dati dell’epoca, in particolare sull’IPC, che mostrava una decelerazione dei prezzi dei beni e un’inflazione contenuta dei servizi. Se i prezzi avessero continuato a calare allo stesso ritmo, il 2% entro la fine dell’anno sarebbe stato un obiettivo ragionevole (il 2% è anche il target della Fed per l’inflazione core).
Infrante le speranze di un “pivot”…
Questo scenario è in gran parte scomparso. Innanzitutto, i dati sono cambiati. Le revisioni dell’IPC statunitense hanno evidenziato una disinflazione dei beni molto più contenuta rispetto a prima, mentre l’inflazione dei servizi è risultata più elevata. Inoltre, i solidi dati sul mercato del lavoro e sulle vendite al dettaglio lasciano intendere che la crescita economica è ancora molto forte. Le aspettative di inflazione hanno quindi ricominciato a salire, tonando a superare il 3% (si veda Grafico 1).
Non è tutto: l’aumento si è verificato nonostante la sostanziale stabilità dei prezzi del petrolio. Questo dimostra come l’inflazione sia trainata dalle componenti core dell’indice e non solo dai prezzi tipicamente volatili dell’energia. Parallelamente all’aumento delle aspettative di inflazione, i tassi dei futures sui fondi federali hanno raggiunto un massimo di oltre il 5,25% e i rendimenti dei Treasury US decennali hanno sfiorato il 4%.
Durante il “periodo di svolta”, si pensava che l’inflazione sarebbe scesa al target del 2% fissato dalla Fed senza che l’economia entrasse in recessione e che le pressioni sui prezzi si sarebbero rivelate in definitiva transitorie. La riapertura dell’economia cinese dopo la pandemia avrebbe ridotto l’inflazione dei beni, mentre la crescita dei salari non era poi così lontana dal livello auspicato dalla Fed.
Ora sembra (di nuovo) che per far salire il tasso di disoccupazione e rallentare l’incremento dei salari servirà una recessione che, data la persistente solidità dell’economia, inizierà probabilmente con un certo ritardo rispetto a quanto ritenuto inizialmente, ma a nostro avviso, si verificherà comunque quest’anno.
E che dire dei mercati?
I mercati azionari, tuttavia, continuano ad apparire largamente insensibili agli sviluppi dei mercati del reddito fisso e a questo scenario macroeconomico poco incoraggiante. Da quando le aspettative sull’inflazione e sui tassi di riferimento erano ai minimi, l’indice S&P 500 è salito del 4%. Lo scorso anno, quando le previsioni sui tassi di riferimento sono aumentate, non solo le azioni sono scese, ma quello di tipo growth hanno sottoperformato le controparti value. Questa volta, gli indici growth hanno nettamente battuto gli indici value.
Una possibile spiegazione di questo andamento è da ritrovarsi nel fatto che, grazie ai ribassi dei mercati dello scorso anno, le azioni hanno già “scontato” la recessione. Essendo lungimiranti per natura, le azioni si concentrano sulla ripresa futura.
Le stime degli utili, tuttavia, non supportano questa percezione. Dall’anno scorso, infatti, per le azioni statunitensi sono state apportate drastiche correzioni al ribasso degli utili. Le aspettative di crescita degli utili per il 2023 sono ora fiacche: appena lo 0,3% rispetto al 2022 a fronte di un tasso storico in genere del 10%.
Questa cifra così bassa riflette il rincaro dei costi dei fattori di produzione, vale a dire che le aziende vedranno comprimere i margini piuttosto che diminuire il fatturato. Nell’ultimo anno, le stime sulle vendite sono aumentate (in parte per effetto dell’inflazione), mentre se gli analisti si aspettassero una recessione, queste previsioni dovrebbero calare (si veda Grafico 2). Se davvero gli Stati Uniti scivoleranno in una recessione, come ci aspettiamo, le stime sugli utili dovranno scendere ulteriormente.
Stesso problema con l’inflazione nella zona euro
La Fed non è l’unica banca centrale alle prese con l’inflazione. Gli ultimi dati pubblicati hanno sicuramente sconcertato anche la BCE. L’inflazione core è infatti salita al 5,3%, avvicinandosi al livello degli Stati Uniti (5,6%), dove però il tasso core è in calo.
Come negli Stati Uniti, le aspettative sui tassi di riferimento hanno raggiunto nuovi massimi e sembra ormai certo che la BCE aumenterà i tassi di 50 pb nei prossimi mesi. I rendimenti dei Bund tedeschi decennali sono in aumento. L’elevata inflazione riflette in parte una crescita robusta. Gli ultimi indici dei responsabili degli acquisti sono stati generalmente più alti rispetto al mese precedente, mentre quelli dei servizi hanno superato la soglia del 50, indicando un’ulteriore espansione dell’attività.
In poche parole, la BCE si trova di fronte allo stesso dilemma della Fed: fino a che punto dovrà spingersi per rallentare l’economia se vuole contenere l’inflazione?
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